Dove a Roma 2….seguendo nell’arte i colori più significativi.

Stendhal (1783/1842) scrive nel suo “Passeggiate Romane” (del 1827) di aver gustato la felicità di essere a Roma liberi di seguire un itinerario alla ventura, svagato.

Io cercherò di proporre una meta da raggiungere nella Città, senza troppe pretese, non essendo un divulgatore con la cultura di Vittorio Sgarbi….

Mi aiuteranno i colori più significativi nell’arte, il rosso, il bianco, il nero, il verde o il blu (che coincidono con i quattro elementi della natura: fuoco/aria/terra/acqua). In fondo, si tratta, come si suol dire, di seguire una sorta di “fil rouge”. La mia speranza è di far venire la voglia a chi mi legge di moltiplicare gli itinerari suggeriti.

Iniziamo con il colore rosso: nella Roma antica era simbolo di sacralità (vedi la statua in porfido dedicata alla Dea Roma in Piazza del Campidoglio), ovvero di rango elevato (vedi la veste orlata di porpora degli alti Funzionari dello Stato o riservata ai generali in trionfo). Nella Roma Cristiana basterà richiamare il rosso cardinalizio. Nella Roma del I secolo dopo Cristo si deplorava che le pareti delle dimore fossero decorate con colori vivaci: si diceva che l’uso di pigmenti costosi ed esotici era il frutto della decadenza dei costumi, di modelli di vita basati sul piacere dei sensi che dall’Oriente si diffondevano (oggi  gli  islamici sostengono invece, che questi sono i modelli diffusi dall’Occidente…) alterando l’austerità della Roma più antica (vedi le “Metamorfosi” di Ovidio, con gli Dei che hanno le passioni degli uomini).

Noi faremo un salto gigantesco per raggiungere due opere d’arte assai distanti tra loro sia per l’epoca di esecuzione, sia per il rispettivo significato.

La prima la troveremo nella GNAM (Galleria Nazionale Arte Moderna e Contemporanea), a Valle Giulia è del 1930: è “Piazza Navona” dipinta da Gino Bonichi, in arte SCIPIONE (1904/1933).

E’ un quadro dominato dal cielo del tramonto, di un colore rosso cupo: già nel 1935 è stato notato che il pigmento ben rappresenta “un luogo che ricorda un’immensa mela corrosa dal tempo e bacata”: quella è la Città come la vedeva l’artista della Scuola Romana Espressionista di Via Cavour.

La seconda opera merita la nostra attenzione non solo per lo splendore delle diverse gradazioni di rosso e di verde espresse dal maestro di Giotto, Pietro CAVALLINI, alla fine del ‘200, nell’affresco dedicato al “Giudizio Universale” (nel Monastero Benedettino a fianco della Chiesa antichissima di S.Cecilia in Trastevere) ma per il silenzio che domina questo luogo appartato di ex clausura al centro di una caotica Città come Roma. Per vederla, basta attraversare il cortile di fronte alla Chiesa, usare il citofono che è accanto al portone sulla sinistra, rispetto alla facciata: arriverà la suora che con l’ascensore vi guiderà al primo piano e vi racconterà la storia di questo capolavoro. Davanti ad esso noterete che le figure non hanno più la fissità tradizionale dell’arte bizantina (che oggi rivive nelle icone Russe): hanno un’evidenza plastica del tutto nuova. Sapete che il famoso critico d’Arte Federico Zeri, nel 1996, ha sostenuto che ad Assisi ha operato proprio Cavallini e non Giotto. Certo, ammirerete la luce che impregna la pittura ed insieme il sapiente uso del chiaroscuro: viene in mente che la parola “Dio” nella sua radice indo-europea vuol dire proprio “luce”.

Francesco Scaldaferri